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Il futuro come scelta esistenziale – condanna, dono e arte dell’ignoto

2025-04-15 11:44

Giuliano

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Il futuro non è da comprendere ma da abitare. È una soglia viva che risponde alla nostra presenza, non al nostro controllo.

C’è un momento in cui lo sguardo si ferma sulla linea dell’orizzonte e avverte una vertigine: quella del non-sapere. Un brivido silenzioso attraversa il petto, simile a ciò che si prova davanti al mare aperto o nel silenzio di una notte senza luna. Il futuro, in quell’attimo, non è più un’idea. Si presenta come un battito sospeso, una tensione vitale tra ciò che è stato e ciò che potrebbe essere. Come un baratro, sì — ma anche come un’apertura. Come una condanna, o come un dono.

Ma non è il futuro a scegliere. Siamo noi.

Il futuro è una tela ancora intonsa che riflette — più che il tempo — la qualità della nostra coscienza, del nostro coraggio, del nostro sguardo. È la prova dell’anima, il banco di prova della libertà. È la stanza segreta dove si rivela il nostro modo di stare nel tempo.

Viviamo in un tempo che teme l’ignoto. In un tempo che, invece di dialogare con il mistero, lo respinge. Un tempo che preferisce una sicurezza mediocre a una possibilità sublime. Che accetta la certezza della replica piuttosto che l’audacia della creazione. Così, il futuro ci appare spesso come condanna: come una sequenza inarrestabile di eventi predeterminati, un domino di cause e conseguenze già scritte nel libro dei numeri. Ma questa visione non è una realtà: è una scelta. E, più profondamente, una rinuncia.

La paura del futuro è, in realtà, la paura di noi stessi. Della nostra potenza. Della nostra capacità di incidere. Perché sapere che ogni scelta genera un mondo comporta un peso immenso. È più facile credere che nulla cambi, che tutto sia già scritto, che le forze siano troppo grandi per noi. Così ci alleggeriamo. Demandiamo. Cediamo il timone. Lasciamo che siano gli altri, o il sistema, o la casualità a decidere per noi. E ci illudiamo che il futuro sia un fiume che scorre senza di noi, che ci trascina con la corrente. Ma in verità, il fiume è fatto delle nostre gocce. Ogni goccia ha un senso. E se cambia la qualità delle gocce, cambia anche la direzione della corrente.

Il futuro come condanna nasce da questo rifiuto del gesto, da questa dimenticanza del potere creativo. Nasce dall’inerzia, dal non voler vedere, dal preferire la ripetizione alla trasformazione. Ma c’è un altro modo di guardare: uno sguardo più quieto, più profondo. Uno sguardo che vede il futuro come dono.

E non dono in senso magico, come se qualcosa ci dovesse essere regalato da fuori. Ma dono come possibilità. Come spazio che si apre ogni volta che lo attraversiamo con intenzione. Come grembo. Come soglia. Come respiro del possibile.

Il dono non arriva perché lo abbiamo calcolato, ma perché lo abbiamo invocato — con la qualità della nostra presenza. È un ospite che entra quando la casa è pronta, quando la soglia è aperta. In questo senso, vivere il futuro come dono significa assumere una postura: quella della disponibilità. Significa abitare l’ignoto non come minaccia, ma come luogo generativo, come grembo fecondo.

Il futuro è ignoto perché è vivo. Se fosse interamente conoscibile, sarebbe già morto. Ogni tentativo di controllarlo, prevederlo, incasellarlo lo riduce, lo svuota. L’arte dell’ignoto consiste nel restare aperti, nell’attraversare il tempo con la vulnerabilità del principiante, con la delicatezza dell’ascoltatore, con la saggezza del viandante. Nell’ignoto risiede il mistero che feconda la realtà. Come la notte genera sogni, così l’incertezza genera significato.

Chi accoglie il futuro come arte vive nel paradosso: progettando senza rigidità, desiderando senza attaccamento, agendo senza aspettativa. È una pratica spirituale, una disciplina interiore, un’ecologia dell’esistenza. E richiede forza, perché vivere nell’incertezza non è comodo. Ma è l’unico modo per essere davvero vivi. L’arte dell’ignoto si nutre di silenzio, di lentezza, di ascolto profondo. È come camminare nel buio con una candela: si vede solo il prossimo passo, eppure si procede.

Le pratiche che ci allenano a stare nell’ignoto sono molteplici: la meditazione, la creatività, l’amore. Tutte richiedono di mollare il controllo. Tutte ci portano a perdere un po’ di noi stessi per scoprire qualcosa di più grande. Quando amiamo, non sappiamo dove andremo. Quando creiamo, non sappiamo cosa emergerà. Quando meditiamo, non sappiamo chi incontreremo dentro di noi. Ma è lì, in quel non-sapere, che nasce la bellezza. E ogni forma d’arte vera è sempre un atto di fiducia.

Il futuro non ha bisogno di piani, ma di presenze. Di esseri umani che abbiano il coraggio di stare davanti all’ignoto con il cuore aperto, che sappiano ascoltare il silenzio e non fuggano dalla complessità. Il futuro non si lascia conquistare con la strategia, ma si lascia sedurre dall’autenticità. È un incontro amoroso, non un conflitto. È una danza a due, non un assedio.

La vera domanda non è cosa accadrà, ma come sarò io quando accadrà ciò che non conosco. Sarò presente? Sarò allineato con il mio centro? Saprò trasformare l’imprevisto in occasione? Saprò custodire la fiamma interiore anche nella notte più buia? Questa è la domanda del viandante consapevole, del pellegrino del tempo.

Vivere il futuro come arte significa accettare che non esistono risposte definitive. Che ogni certezza è temporanea, ogni sicurezza è illusoria. Ma anche che ogni passo consapevole è un atto creativo. Che ogni gesto autentico è una preghiera lanciata nel campo delle possibilità. Che ogni parola detta con amore è una risonanza che cambia il mondo. Il futuro vibra con le frequenze della nostra verità.

La vera libertà non è nel controllo del futuro, ma nella capacità di rispondere al futuro. Di danzare con ciò che arriva. Di trovare senso anche nell’assurdo. Di generare bellezza anche nel caos. Questo è il nostro potere più grande: la risposta creativa. La capacità di trasformare ogni condanna apparente in un’occasione di verità. Come la conchiglia trasforma il granello in perla, così possiamo trasformare l’incertezza in significato.

Il futuro è un invito. Non a dominare, ma a fiorire. A diventare ciò che siamo. A incarnare la nostra visione più profonda. A risuonare con ciò che il mondo chiede. Non c’è bisogno di sapere tutto. Basta essere pronti ad amare di più, a creare con ciò che c’è, a lasciarci sorprendere. Il futuro non è davanti a noi. È tra noi. Dentro di noi. In ogni atto consapevole, in ogni parola generosa, in ogni sguardo che non fugge. È l’eco della nostra presenza.

E allora, il futuro non è una terra promessa. È una chiamata. E noi, finalmente, possiamo rispondere.

E se il futuro fosse un albero che attende radici? Se fosse uno specchio che mostra non ciò che sarà, ma ciò che siamo pronti a diventare? Ogni giorno, nell’ordinarietà delle scelte, nel respiro che diamo alle cose, possiamo incontrare questa soglia. E lì, in quell’istante, ci è dato il potere silenzioso di reinventare il possibile.

Il futuro non è là, ma qui — nella qualità della nostra attenzione. È la trama che tesse l'invisibile tra ogni gesto. È un campo sensibile che risponde alla profondità del nostro desiderio e alla limpidezza del nostro sguardo. In questa visione, il futuro è molto più simile a un ecosistema che a una linea. E come ogni ecosistema, chiede cura.

Cura del linguaggio, cura delle relazioni, cura del tempo interiore. Chiede pause, non solo accelerazioni. Chiede discernimento, non solo scelte. E soprattutto, chiede presenza. Perché senza presenza, il futuro si svuota. Diventa solo un'eco del passato, una sequenza sterile. Ma con la presenza, ogni attimo torna fertile. Ogni istante si apre.

Ed è forse proprio questa la vera arte del futuro: imparare a lasciarci toccare da ciò che ancora non conosciamo. Imparare a dire “sì” anche quando la mente trema. Imparare a restare, quando tutto ci spinge ad andarcene. Il futuro, allora, non è né condanna né dono. È specchio. E ciò che vediamo riflesso dipende dal modo in cui scegliamo di guardarci dentro.

La domanda diventa: chi vogliamo essere mentre il tempo si apre? Quale musica vogliamo suonare, sapendo che ogni nota modula la sinfonia del mondo?

E mentre scriviamo — con i gesti, le parole, gli sguardi — la partitura silenziosa dei giorni che verranno, possiamo ricordare che ogni incertezza è anche una promessa. Ogni notte buia, un invito alla veglia. Ogni futuro, un luogo dove l’anima può finalmente espandersi.

E forse, dopo tutto, il futuro non è da comprendere. È da amare.

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