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Microsaccadi dell’anima: l’arte di vedere oltre il visibile

2025-04-01 10:36

Giuliano

PSICOLOGO,

Microsaccadi, visione e natura intrinseca del vedere ed esistere

Ci sono movimenti impercettibili che salvano la visione. Microscopici spasmi oculari, detti microsaccadi, che impediscono all’immagine davanti a noi di scomparire. Senza di essi, ciò che fissiamo con troppa insistenza svanisce nel nero: i neuroni visivi, saturati, smettono di rispondere. È una verità fisica, ma anche poetica.

Forse anche la psiche funziona così. Forse anche l’anima ha bisogno di microsaccadi, di piccoli terremoti della coscienza che la sveglino, che la mantengano viva nella sua capacità di vedere. Perché quando fissiamo troppo a lungo una situazione, un’idea, un’identità, una ferita, accade la stessa cosa: diventiamo ciechi per eccesso di fissità.

Viviamo immersi in ciò che chiamiamo realtà, ma non siamo sempre presenti. Ci adagiamo nel conosciuto, nelle categorie, nei giudizi. Le nostre strutture mentali si polarizzano. E così, il reale si desatura, si appiattisce, si perde la vibrazione del possibile. Vediamo ciò che abbiamo già visto, pensiamo ciò che abbiamo già pensato, sentiamo ciò che abbiamo già sentito. E mentre ci diciamo “questo lo so”, in realtà stiamo smettendo di sentire.

Ed è proprio in questo processo di anestesia spirituale che si nasconde il pericolo: la perdita della risonanza. Non si tratta solo di abitudine, ma di una forma di congelamento sensoriale, una modalità automatica di attraversare la vita. È come se il cuore avesse spento il suo ascolto, e la mente si fosse arroccata su ciò che già conosce.

Serve allora un movimento. Una deviazione. Un’irruzione. Una microsaccade dell’anima. Un’interferenza minima, ma sufficiente a ridestare l’occhio interiore. Può essere una parola, una domanda, un silenzio, un sogno. Può essere un dolore improvviso, o una gioia incomprensibile. Non importa la forma: ciò che importa è la capacità di spostare la traiettoria del senso.

In questo senso, ogni gesto di consapevolezza è un atto poetico, perché rompe la linearità. Ogni atto di ascolto profondo è un atto filosofico, perché cerca l’origine. E ogni atto terapeutico autentico è un atto iniziatico, perché introduce in uno spazio altro, dove la realtà si rivela nel suo essere molteplice, fluida, non riducibile. Non più esperienza da spiegare, ma mistero da abitare.

Il compito dell’anima non è fissare, ma oscillare. Non è trattenere, ma vibrare. Ogni fissazione — psicologica, ideologica, relazionale — è una perdita di contatto con il divenire. Ma ogni sguardo che si rinnova, anche per un attimo, è una rinascita percettiva.

Chi vive in contatto con le proprie microsaccadi interiori, è come un artista che non smette mai di ridipingere il mondo. Non per capriccio, ma perché la realtà è un affresco dinamico, mai compiuto, mai finito. Il terapeuta, in questa visione, non è colui che guida il paziente a "capire", ma colui che aiuta a risintonizzare lo sguardo.

E allora anche il dolore, anche il sintomo, anche il trauma, possono diventare microsaccadi. Possono essere scosse gentili, interruzioni sacre, richiami del profondo. Non da correggere, ma da ascoltare. Perché lì, dove l’anima ha tremato, qualcosa vuole essere visto.

Il trauma, nella sua potenza, è una microsaccade violenta: uno squarcio improvviso. Ma può essere anche un’occasione di risveglio. Il dolore che provoca non è solo sofferenza: è richiamo al senso, alla necessità di riposizionare lo sguardo. Così, anche ciò che appare insopportabile può, nel tempo, diventare materia di luce.

La vera clinica, allora, non è un’operazione sul contenuto, ma un’arte della soglia. Non ci si occupa tanto di cosa appare, ma di come appare. Non si guida il paziente verso una soluzione, ma si cammina insieme nella disorganizzazione fertile dove il nuovo può emergere.

Ecco allora la pratica terapeutica non più come riparazione, ma come danza tra caos e forma. Come creazione di un campo in cui l’anima può, finalmente, muoversi. Perché è nel movimento che la psiche ritrova sé stessa.

Ogni relazione autentica, terapeutica o umana, è una microsaccade che riapre lo sguardo. Ogni incontro è una vibrazione che, se accolta, riattiva la percezione. E ciò che sembrava chiuso, può improvvisamente aprirsi.

La mente lineare cerca di fissare, di catalogare, di proteggersi. Ma la vita non è lineare. È curva, è pulsazione, è marea. Ed è proprio in questa oscillazione che possiamo guarire. Non attraverso la rigidità, ma attraverso la fiducia nel movimento.

Esistono microsaccadi psichiche che avvengono nella notte, quando il pensiero si placa e il sogno riprende la sua danza. Esistono microsaccadi relazionali: incontri fugaci che lasciano segni profondi, gesti minimi che riorientano il corso interiore di un’esistenza. E poi ci sono le microsaccadi spirituali: istanti di grazia che nessuna parola può trattenere, ma che cambiano per sempre la qualità della nostra presenza.

Forse non si tratta di vedere di più. Ma di vedere diversamente. Di lasciarci sorprendere. Di imparare a leggere il vuoto tra le cose, le pause tra le parole, i silenzi tra le emozioni.

E allora sorge una nuova pedagogia dell’anima: un’educazione alla soglia, alla fluttuazione, al non-finito. Un allenamento a restare nei paradossi, a danzare nella complessità, a non irrigidirsi mai nel già noto.

Ogni atto di attenzione è una microsaccade. Ogni sospensione del giudizio è una fessura nel continuum della coscienza. Ogni dubbio che accettiamo di abitare è un invito al possibile. Ed è in questi interstizi che il nuovo si insinua.

Il terapeuta che impara ad ascoltare le microsaccadi del paziente — pause, esitazioni, cambi di tono, silenzi — entra in un territorio sacro. Un luogo dove le parole non sono solo suoni, ma segnali di profondità che cercano di affiorare.

Nella tradizione zen, si dice che il vero sguardo è quello che non guarda nulla in particolare. Non perché sia distratto, ma perché è totalmente aperto. Così le microsaccadi non sono solo un meccanismo neurologico: sono metafora della presenza viva. Del non aggrapparsi. Del non irrigidirsi. Del vedere ogni istante come un’opera d’arte non finita.

Imparare a muovere lo sguardo interiore è un atto rivoluzionario. Perché libera la realtà dalle sue maschere. E ci restituisce il brivido del primo sguardo.

Ogni microsaccade è un invito a rivedere tutto. A non accontentarci del conosciuto. A fare della percezione un atto creativo.

E forse, un giorno, ci accorgeremo che la bellezza non era mai scomparsa. Era solo troppo fissata per essere vista.

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